Dal 4 novembre sarà possibile iscriversi a Ca' Foscari Alumni
Lascia la tua mail per restare informato

News

 

Dal lockdown al coprifuoco: la testimonianza di Nicoletta Pireddu

Big_pireddu

In occasione delle nostre interviste agli Alumni che vivono all'estero, abbiamo avuto il piacere di conoscere Nicoletta Pireddu, Professoressa Ordinaria di letteratura comparata e italiana presso la Georgetown University a Washington D.C. e Inaugural Director della Georgetown Humanities Initiative. Da allora negli Stati Uniti è scoppiato il tragico caso di George Floyd, e Nicoletta ha deciso di raccontarci il suo punto di vista su ciò che sta accadendo.

"Lo scorso 29 maggio Washington DC aveva inaugurato l’atteso allentamento delle restrizioni anti-Covid in risposta alla crescente pressione della popolazione, insofferente verso un’ulteriore estensione della quarantena sebbene i contagi non accennino ancora calare. Gli assembramenti consentiti non avrebbero dovuto superare le dieci persone. Nel giro di poche ore, tuttavia, nei pressi della Casa Bianca si sono formati i primi gruppi di manifestanti per protestare contro l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia di Minneapolis. Ai partecipanti, indignati ma non violenti, si sono mescolati vandali e saccheggiatori, tra i quali anche suprematisti bianchi armati, infiltrati per creare distruzione e implicitamente farne ricadere la responsabilità sugli afroamericani.

Il 31 maggio la sindaca di Washington Muriel Bowser, afroamericana, ha imposto il coprifuoco dal tramonto sino al mattino, rimasto in vigore per quattro giorni senza però riuscire a impedire ulteriori gravi danni in un raggio di diverse miglia, non soltanto nella zona di Downtown, sede di istituzioni e uffici, ma anche in numerosi rioni di diverse condizioni socio-economiche, tra cui la zona di Georgetown dove si trova la mia università, non lontano dalla mia abitazione.  Il caos distruttivo si è accanito su eleganti negozi, depredati e imbrattati dalla scritta “Capitalism is Murder”, ma anche su attività commerciali gestite da afroamericani e su supermercati e farmacie che servivano quartieri disagiati e che stavano faticosamente riaprendo dopo tre mesi di forzata inattività a causa della pandemia.

Il tweet della sindaca di Washington D.C., Muriel Bowser

Mentre sirene di ambulanze, pompieri e polizia riempivano il silenzio, gli elicotteri della Guardia Nazionale volavano bassi per controllare e disperdere i manifestanti. Da decenni Washington non era stata teatro di una tale devastazione. Bisogna risalire alle rivolte del 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King per ritrovare scenari comparabili. A me è sembrato di ritornare ai miei anni di studentessa a Los Angeles, dove il 29 aprile 1992 eruppero cinque giorni di violente proteste e vandalismo dopo lo scagionamento di quattro poliziotti che avevano selvaggiamente picchiato l’afroamericano Rodney King, con testimonianza di un video presto diffuso in tutta la nazione e all’estero. Ho imparato allora la parola “Mayhem”, sinonimo di totale disordine, mentre tornando a casa in autobus dall’università vedevo gruppi di individui che saccheggiavano e incendiavano negozi lungo tutto il tragitto fino all’angolo della mia via.

Auto incendiate (Wtop)

Oltre all’inasprimento dei disordini, quello sconvolgente episodio aveva stimolato dibattiti sulla discriminazione razziale, la disparità economica e la brutalità della polizia contro la popolazione afroamericana, che tuttavia persistono. Ricordiamo Michael Brown, diciottenne, freddato in Missouri con sei colpi di pistola per sospetto furto; Tamir Rice, dodicenne, ucciso in Ohio perché creduto pericolosamente armato mentre giocava in un parco con una pistola di plastica; Freddie Gray, morto a Baltimora per irreparabili lesioni alla spina dorsale dopo l’arresto; l’omicidio del venticinquenne Philando Castile a un controllo stradale sotto gli occhi della figlia e documentato su Facebook dalla fidanzata in auto accanto a lui al momento dello sparo; Breonna Taylor, vittima di un’irruzione notturna della polizia a casa sua, creduta il covo di un suo ex-fidanzato; e il caso appena riemerso di Manuel Ellis, disarmato ma aggredito dalla polizia a un semaforo e morto per asfissia.

Sempre più gente munita di cellulari cattura e diffonde scene agghiaccianti che altrimenti non comparirebbero nelle cronache ufficiali. Ad ogni nuovo caso si grida sempre, invano, che non devono più seguire altri inaccettabili episodi. L’omicidio di George Floyd riapre quindi una ferita straziante. Il razzismo, ufficialmente messo fuori legge dall’Equality Act del 1964, rimane di fatto sistemico ed è difficile da combattere nella quotidianità. Permane la consapevolezza delle diverse aspettative della giustizia penale a seconda delle etnie, e il palese divario del comportamento delle forze nell’ordine nel caso di soggetti bianchi o neri ne è una prova ormai inconfutabile. La comunità afroamericana esige un cambiamento reale e duraturo. Chiede, ad esempio, che un poliziotto bianco che ha ucciso un inerme individuo di colore esercitando violenza gratuita sia punito con la pena più severa, anziché essere semplicemente trasferito in un'altra contea o sospeso temporaneamente, come spesso invece avviene.

Monumenti sfregiati da National Mall (NPS)

Trovo drammatico che il rapporto tra poliziotto bianco e cittadino nero sia sancito da diffidenza e paura reciproca. Gli afroamericani non soltanto non si sentono protetti dalla polizia ma ne hanno il terrore. I miei amici mi confermano che ogni volta che i loro figli escono di casa temono di non rivederli più. Raccomandano loro di non protestare od opporre resistenza  in caso di fermo (sebbene immotivato) da parte della polizia perché rischiano la vita. A sua volta, il nefasto stereotipo dell’afroamericano pericoloso alimenta l’ostilità delle forze dell’ordine, predisponendole a una maggiore aggressività.
Indubbiamente questo circolo vizioso risente anche dell’assurdo clima da Far West fomentato dalla diffusione delle armi. Si dà per scontato che la persona con cui si interagisce sia armata e si ritiene quindi imperativo agire con violenza e massima tempestività per proteggere la propria vita. Ma questa ossessione mentale porta a tragici epiloghi come il caso di George Floyd, un combattimento assolutamente impari tra il potere bianco e la vittima nera. Nei discorsi di commemorazione di George Floyd mi ha colpito l’insistenza sul fatto che fosse un buon uomo e un buon padre, quasi fosse essenziale riscattare la sua reputazione per timore che eventuali sospetti sul suo passato non ineccepibile rendessero meno urgente la necessità di trattare umanamente un individuo disarmato e non ostile. È appunto una riforma del codice di condotta degli agenti di polizia a costituire l'urgenza maggiore.

Ma se l’uccisione di George Floyd e le massicce reazioni popolari a cui stiamo assistendo a Washington DC come nel resto degli USA rappresentano un angoscioso déjà-vu, sono peraltro accadute in una congiuntura che ha aumentato il profondo disagio della comunità afroamericana. Come ho menzionato nella mia precedente testimonianza, il coronavirus ha messo a nudo la violenza economica e sociale inflitta agli afroamericani dal connubio di razzismo e capitalismo. L’accesso all’assistenza medica, per esempio, non è consistente e, anche quando è garantito, porta a risultati insoddisfacenti. Anche le possibilità di ascesa sociale sono insufficienti, perfino per coloro che sono faticosamente giunti al ceto medio.
Alle gravi ragioni che hanno alimentato la disperazione e rabbia di questi giorni, mi permetto di aggiungere un elemento inquietante e assai pericoloso: un presidente non soltanto privo di empatia ma che istiga alla discriminazione e alla violenza. Sin dal suo discorso inaugurale, Trump ha insistito sull’insicurezza delle città americane, associando la presunta diffusione della criminalità al problema delle minoranze e promettendo una rinnovata grandezza dell’America grazie al rigore del binomio legge e ordine, proprio quello che in questi giorni sta giustificando la militarizzazione della polizia. Agli antipodi di questa amministrazione antiliberale (che per molti significa soprattutto anti-afroamericana) sta invece un’idea di giustizia basata sul rispetto dei diritti civili per tutti. Lo scrittore afroamericano James Baldwin, in "No Name in the Street", afferma che per capire veramente come la giustizia sia amministrata in una nazione non si devono interpellare poliziotti, avvocati, giudici o la borghesia privilegiata. Si devono invece ascoltare le testimonianze degli individui senza tutela, coloro che più di ogni altro hanno bisogno della protezione della legge.
Ma Trump si ostina a definire “terroristi” i manifestanti che esercitano un diritto costituzionale chiedendo pacificamente giustizia per la comunità afroamericana e ostenta l’uso esemplare della forza per reprimerli. E cosí l’esercito che dovrebbe essere impiegato contro potenze nemiche si sta scagliando invece contro i propri cittadini con un accanimento allarmante. Abbiamo visto gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro gruppi di giovani non aggressivi e percosse con scudi e manganelli a giornalisti per liberare il campo a Trump che doveva farsi ritrarre di fronte alla chiesa di St. John con la Bibbia in mano.

Manifestanti contro servizio segreto (DCist)

In questi giorni, tra l’altro, mi ha colpito la varietà stupefacente di forze dell’ordine nelle strade di Washington—FBI, servizi segreti, Guardia Nazionale, agenzia per il controllo delle frontiere e dell’immigrazione e altri enti del Dipartimento della sicurezza interna. Spiccavano inoltre soldati in tenuta da guerra apparentemente inviati dal governo federale ma senza chiara affiliazione o distintivi di sorta, che hanno causato molta inquietudine tra gli abitanti.
La stessa sindaca Bowser si è espressa contro gli abusi dell'esercito e ha fatto dipingere “Black Lives Matter” in giganteschi caratteri gialli su una strada che porta alla Casa Bianca per onorare le decine di migliaia di manifestanti (si spera muniti di mascherina, nonostante il Covid sia passato in second’ordine) che lo scorso 6 giugno hanno sfilato per commemorare la morte di George Floyd e invocare il cambiamento. Bowser ha anche simbolicamente rinominato "Black Lives Matter Plaza" l’area dove i manifestanti erano stati aggrediti dalle forze dell’ordine prima del blasfemo servizio fotografico di Trump davanti alla chiesa. Perfino i vertici del Pentagono, in buona parte repubblicani, si sono opposti agli abusi militari. E qualche risultato si è già notato: la Guardia Nazionale ha accettato di sorvegliare disarmata le più recenti manifestazioni e ha sospeso gli arresti.

Black Lives Matter  (wmal.com)

L’eco che questa mobilitazione pubblica sta avendo a livello globale fa sperare che abbia toccato la coscienza della nazione e che alle proteste segua un mutamento permanente delle relazioni sociali. Come madre di due adolescenti cosmopolite e come docente con colleghi e studenti di tutte le etnie, posso dire che le scuole e le università stanno coinvolgendo le rispettive comunità stimolando un dialogo costruttivo sulle implicazioni di questi eventi e fornendo risorse pedagogiche e psicologiche per garantire la piena partecipazione delle persone afroamericane.
Piccoli passi indubbiamente essenziali ma purtroppo ancora insufficienti a colmare l’abisso tra due Americhe separate da condizioni, esperienze e opzioni radicalmente diverse, due mondi che si riconoscono in due inni nazionali distinti- uno che esalta la terra della libertà e uno che rievoca un cupo passato e il sangue dei massacri, di ieri e di oggi.