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Intervista a Nicoletta Pireddu, Washington DC

Nicoletta Pireddu vive a Washington, DC. È professoressa ordinaria di letteratura comparata e italiana presso la Georgetown University e Inaugural Director della Georgetown Humanities Initiative. In precedenza ha insegnato a Duke University e alla University of Houston. Specialista di relazioni europee, storia intellettuale e studi culturali e interdisciplinari, ha pubblicato sette volumi e oltre sessanta articoli. È stata insignita di vari premi, tra cui l’American Association for Italian Studies Book Award, il Dean’s Award for Excellence in Teaching e il Distinguished Service Award.
Oltre a un Ph.D. in comparatistica dalla University of California Los Angeles, ha conseguito il dottorato in anglistica a Ca’ Foscari.

Secondo il tuo punto di vista come sta rispondendo alla pandemia la società del Paese in cui vivi e quali analogie/differenze trovi con la risposta italiana?

In generale negli USA la reazione ufficiale alla pandemia ha dimostrato da subito che la dura lezione dell’Europa e della Cina non era servita. A un gravissimo problema globale il governo ha dato una risposta locale che ha avuto e continua ad avere un costo umano elevatissimo.
Diversamente dall’Italia, in parte anche per ragioni di scala, non c’è stato un piano coordinato e veloce per isolare i contagi, né uniformità di misure restrittive e preventive sull’intero territorio (ciascuno stato implementa a proprio modo le disposizioni federali, senza contare le ulteriori differenziazioni a livello di singole contee). Soprattutto, il numero di test per abitanti continua ad essere assai inferiore all’Italia, nonostante Trump esulti per i traguardi raggiunti. A Washington DC la pandemia si è manifestata in ritardo rispetto alla zona di New York e alla costa occidentale. Non siamo ancora al picco. Al momento abbiamo la più alta percentuale di positività in tutta la nazione e rimarremo in quarantena fino all’8 giugno.
Negli USA non sono in vigore regole rigorose come in Italia. Abbiamo linee guida sulle precauzioni da seguire, affidate al senso di responsabilità di ciascuno. Tuttavia il proverbiale culto americano della libertà personale sta mettendo a dura prova non soltanto la solidarietà ma anche il buon senso: si vuole riaprire il paese nonostante quasi nessuno stato abbia soddisfatto le condizioni sanitarie e i casi di COVID siano addirittura in aumento in alcune zone; molta gente non indossa la mascherina; vi sono assembramenti in luoghi pubblici al di sopra del numero consentito. Di certo anche in Italia non sono mancate infrazioni, ma qui negli USA non si tratta soltanto di bravate. Questi comportamenti sono spesso il risultato di ideologie molto radicate (politiche, religiose, culturali), che talvolta si traducono in manifestazioni di violenza. Le immagini delle code davanti ai negozi di armi hanno fatto il giro del mondo.
La gestione della riapertura del paese sta evidenziando una fortissima polarizzazione. È come se ci fossero due Americhe che si scontrano e strumentalizzano le misure—da un lato la liberalizzazione a oltranza per ragioni economiche, dall’altro la cautela in nome della prevenzione o almeno del contenimento dei contagi. E a causa di queste tensioni si verificano situazioni preoccupanti, come gli spostamenti da una contea o da uno stato a uno confinante per poter usufruire di servizi (non sempre essenziali) che nella propria zona di residenza non sono ancora disponibili (come parrucchieri, tatuaggi, bowling o ristoranti). Non c’è nemmeno univocità nel definire a quale soglia si parli di febbre: con 37.5 di febbre non si può lavorare in Delaware ma è concesso in altri stati, come Texas, Georgia, Ohio o Pennsylvania.
Il COVID è stato definito un grande equalizzatore perché nessuno è al riparo dal contagio. In realtà, la pandemia ha riacutizzato le stridenti disparità di questa nazione. Vi sono categorie sociali ed etniche assai più colpite di altre—la comunità afroamericana in primis, che a Washington conta oltre il 77% dei contagi. La stessa raccomandazione di indossare la mascherina ha provocato in loro molta diffidenza, come un fattore di rischio anziché strumento di protezione, perché sembra consolidare la stereotipica minaccia dell’individuo di colore e quindi favorire la discriminazione razziale.

Nella tua città qual è la sensazione più forte o il fenomeno più strano di questi giorni?

All’inizio della quarantena, l’elemento più sorprendente è stata l’assenza del rumore degli aerei sopra la mia testa. Un silenzio totale, mentre di solito si sentono aerei in continuazione dalle 5 del mattino a mezzanotte. È stato poi inquietante vedere il campus e il rione di Georgetown deserti e il cortile della scuola di una delle mie figlie trasformato in un centro diagnostico per il COVID.
La chiusura delle scuole ha anche creato una diffusa insicurezza alimentare in ampie fasce della popolazione, poiché i bambini non possono più contare sui pasti offerti gratuitamente dalla scuola. In tutti i rioni si sono quindi aperti centri di raccolta di cibo per supplire a tali carenze. Nell’insieme, comunque, emerge l’endemica precarietà dell’individuo, privo di garanzie su cui in Italia si può ancora contare.
È inoltre assai triste constatare l’enorme danno economico che la quarantena ha causato ai piccoli commercianti che si erano avventurati ad aprire attività sfidando la concorrenza delle grandi catene e della vendita al dettaglio online, molto più diffuse che in Italia. Chi può ora offre il servizio di consegna a domicilio o il ritiro della merce all’esterno senza scendere dall’auto, ma per molti negozianti si prospetta il fallimento.
I momenti di crisi mettono alla prova l’affidabilità di persone e istituzioni. Di fronte a un governo che censura i suoi stessi esperti scientifici se si pronunciano diversamente da quanto in pratica il presidente ha già da tempo deciso, ovvero la riapertura a tutti i costi, spesso ci si rimette con più fiducia a leadership locali, come le istruzioni e i provvedimenti di enti cittadini. Io, ad esempio, seguo gli aggiornamenti quotidiani e le disposizioni emessi dalla mia università.

 Georgetown University deserta

Com'è la tua "giornata tipo" in lock down?

Mi sveglio presto e inizio con un’ora di yoga, poi trascorro buona parte della giornata collegata alla piattaforma Zoom, per riunioni con altri amministratori dell’università, colleghi e studenti. A ogni intervallo scappo in giardino. Trovo però difficile interrompere il lavoro a un’ora precisa, ma questo non è molto diverso dalla mia routine normale. In lockdown è spesso anche complicato coordinare gli orari di tutta la famiglia. Durante il fine settimana va un po’ meglio. La sera facciamo spesso giochi di società.
Quando non ho riunioni virtuali, cerco di proseguire con la ricerca. Per fortuna la biblioteca (chiusa come spazio fisico ma super attiva grazie al personale sempre disponibile via chat) si sta adoperando per mettere a disposizione materiale in forma elettronica che in condizioni normali non circolerebbe.
Facciamo un rifornimento di viveri ogni due settimane e non frequentiamo nessuno. Abbiamo scelto di attenerci a una quarantena seria, secondo le norme italiane. È una sensazione strana non dover prendere l’auto per portare le figlie a tutte le loro attività sportive ed extrascolastiche che di solito riempiono il sabato e la domenica. Ma confesso che non ho particolare voglia di uscire. Mi sento più sicura tra le mura domestiche e non so ancora immaginarmi la ripresa nel dopo-COVID.

Parliamo di mondo del lavoro. Come sta cambiando il tuo settore? Quali strategie saranno necessarie per superare questo momento e cosa consigli ai giovani che vorranno entrare a farne parte?

Dal punto di vista della pedagogia, l’emergenza ci ha obbligati a privilegiare l’insegnamento virtuale. Fortunatamente Georgetown è all’avanguardia nel campo della tecnologia per la didattica universitaria quindi per noi non è stato uno shock. Anche la maggior parte degli eventi culturali programmati per il semestre sono stati adattati in via telematica. Tuttavia l’attuale dipendenza dal web ci sta confermando che nulla può sostituire la presenza umana. Paradossalmente, mentre altri settori professionali stanno pensando di adottare il telelavoro come soluzione permanente (c’è chi prevede una crisi immobiliare causata dal calo della domanda di affitti commerciali), di certo docenti e studenti non vedono l’ora di tornare al campus e riprendere l’insegnamento frontale, che a Georgetown significa seminari per piccoli gruppi con costante interazione tra docente e studenti e stimolanti opportunità di apprendimento esperienziale in collaborazione con le tante istituzioni cittadine.
Per quanto riguarda la ricerca, ritengo che il COVID abbia messo in evidenza il ruolo centrale dell’approccio umanistico per interrogare questo momento di crisi, di incertezza e di grande complessità, per raccontare le nostre storie individuali e collettive, avvicinarsi alle esperienze altrui e riflettere sugli elementi che ci accomunano. Credo che in ambito umanistico ci si focalizzerà maggiormente sulla dimensione pubblica e sulla disseminazione della ricerca tramite forme di comunicazione digitali quali il podcast. Stanno anche risultando sempre più rilevanti le sinergie interdisciplinari tra humanities e scienze mediche e ambientali.
È prematuro ipotizzare cosa ci attenderà il prossimo anno accademico ma, purtroppo, una cosa è certa: la pandemia sta creando gravi problemi finanziari alle università, soprattutto quelle private. Aver dovuto evacuare i campus e rimandare a casa gli studenti ha causato perdite notevoli, destinate ad aumentare vertiginosamente se, come sembra, gran parte degli studenti sceglieranno di prendersi un’aspettativa per l’autunno anziché pagare la salatissima retta universitaria per frequentare eventuali corsi online. Noi docenti ne stiamo risentendo già: fondi di ricerca bloccati, interruzione dei contributi per la pensione, invito al congedo volontario senza retribuzione. La ripresa richiederà tempo…
Supereremo questo momento con la collaborazione, impegnandoci a lavorare per il bene comune. A chi optasse per una carriera nel mio settore consiglio flessibilità, tenacia e disponibilità a spostarsi e a reinventarsi. 
Spero che questa crisi che ci ha messo di fronte alla nostra fragilità ci aiuti a capire cosa sia essenziale per noi, come individui e come collettività, e a compiere scelte più responsabili verso persone e ambiente. A godere di ogni attimo della nostra vita, più lentamente, e a fare il massimo con quanto abbiamo.

La Washington International School, ora utilizzata come drive through per i test Covid