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Emanuele Confortin

Facoltà: Lingue e Civiltà Orientali

Emanuele Confortin

Abbiamo intervistato Emanuele Confortin, laureato in Lingue e Civiltà Orientali e oggi giornalista e documentarista.

Raccontaci un po’ di te: chi sei, in cosa ti sei laureato ed in che anno, di cosa trattava la tua tesi, di cosa ti occupi ora.

Sono nato nel 1978 a Castelfranco Veneto. Il mio legame con Ca’ Foscari risale a ottobre 1998, quando ho iniziato il corso di laurea in Lingue e Civiltà Orientali. Sin da adolescente avevo uno spiccato interesse per l’Asia, ma seguire i corsi e avere l’opportunità di confrontarmi con compagni di studio e docenti sono stati una vera rivelazione per me.
Negli anni la mia concezione idealizzata e un po’ naive dell’Asia ha subìto un rapido ridimensionamento; il mio percorso di studi è culminato con una tesi di ricerca di taglio etno-antropologico, basata su un lungo campo centrato sulle pratiche oracolari del Kinnaur, distretto tribale dell’Himalaya indiano, situato lungo il delicato confine con il Tibet.

Kinnaur, Himalaya

Sono partito per il Kinnaur a settembre 2003. Avevo 24 anni e per tre mesi ho vissuto nei villaggi dei kinnauri, ospite di alcune famiglie locali. Niente telefono, niente chat o e-mail, ma puro assorbimento nella ricerca e un’esperienza umana che ha segnato le mie scelte future, di vita e professionali.
Ho discusso la tesi un anno dopo, nell’autunno 2004, e da quel momento in poi ho proseguito nel lavoro iniziato da studente: il giornalista. Dapprima scrivevo e fotografavo per quotidiani italiani, trattando perlopiù di cronaca veneta; poi, dopo l’esperienza in Kinnaur, ho deciso di specializzarmi in inchieste e reportage dall’Asia. In 18 anni ho lavorato in India, Cina, Pakistan, Nepal, Iran, Iraq, Turchia, Palestina e Balcani.
Oltre a scrittura e fotogiornalismo, da alcuni anni sto investendo molto per perfezionarmi nel documentario, che credo rappresenti il mezzo di narrazione più completo ed efficace.  

Qual è stato il tuo percorso di crescita professionale dopo la laurea?

Come dicevo, per pagarmi gli studi ho iniziato a scrivere e fotografare di cronaca nera, bianca, giudiziaria, poi inchieste locali e approfondimenti di varia natura. In poche parole, giornalismo per quotidiani. Una volta conseguita la laurea ho diretto la mia attenzione al Subcontinente indiano, avviando un lungo percorso che per necessità è passato anche, per periodi più brevi, attraverso il lavoro in azienda. Oggi sono giornalista e documentarista freelance, tratto di aree di crisi, di migrazioni e dell’impatto del riscaldamento globale sulle minoranze ai margini della società moderna.

Quali sono i progetti a cui tieni di più?

Tra i lavori più importanti realizzati nel passato recente voglio citare “Dentro l’Esodo”, progetto realizzato tra il 2015 e il 2017 seguendo le rotte migratorie che dall’Asia e dal Medio Oriente portano in Europa. In quel periodo ho pubblicato molti articoli, poi ho selezionato alcune foto per un’esposizione itinerante e nel 2017 è andato in stampa “Dentro l’Esodo, migranti sulla via europea”, libro che mette assieme le testimonianze da me raccolte sul campo.

Un migliaio di migranti lasciano Idomeni tentando di sconfinare in Macedonia. Bisognà però guadare un torrente, nella notte muoiono tre persone

In ordine cronologico c’è poi “Back to Life in Iraq”, realizzato tra marzo 2017 e gennaio 2018 nell’area compresa tra le città di Erbil e Mosul, nel nord dell’Iraq. In principio ho lavorato alla Battaglia per Mosul, intrapresa dall’esercito iracheno e dalla coalizione internazionale per liberare l’Iraq e la città di Mosul dalle milizie dello Stato Islamico. Durante questo periodo ho conosciuto una famiglia di profughi cristiani siriaci della città di Bartella (Piana di Ninive, vicino a Mosul), fuggiti a Erbil dopo l’arrivo dell’Isis, nell’agosto 2014.

Quartieri distrutti a Bartella, Iraq

Ho seguito l’artista cristiano siriaco Matti al Kanon e suo figlio nel recupero dei dipinti abbandonati per tre anni nella loro casa a Bartella, da poco liberata dalla presenza dell’Isis. Nella collezione, tre tele a tema cristiano erano state trovate dai jihadisti e squarciate con dei pugnali. Dopo il recupero, Matti al Kanon ha ricucito gli squarci inferti dai pugnali come forma di rifiuto per la guerra e come messaggio di speranza per il ritorno alla pace in Iraq, appunto “Back to Life in Iraq”.

Matti al-Kanun esamina gli squarci praticati dai jihadisti

Parte del progetto ha interessato anche Ca’ Foscari, a partire dalle studentesse del corso di laurea in Scienze chimiche per la conservazione e il restauro di via Torino, coinvolte direttamente nella riparazione di una delle tre opere deturpate, la Deposizione di cristo. Poi ancora Ca’ Foscari, stavolta tramite il Center for the Humanities and Social Change diretto dal professor Shaul Bassi. Grazie al sostegno del HSCIF e all’impegno di altre istituzioni, siamo riusciti a recuperare le opere e a portarle a Venezia per esporle all’Oratorio di San Ludovico e poi sull’isola di San Servolo (qui il servizio Rai dell’epoca), alla presenza dell’autore, Matti al Kanon. La storia di al Kanon è raccontata in un breve documentario realizzato con le immagini raccolte durante il recupero delle opere.    

Tra i tuoi numerosi progetti c’è anche Kinnaur Himalaya, il racconto di una comunità che ti ha impegnato per 16 anni. Dove e come è nato questo progetto? Cosa ti ha spinto a dedicarti a questo mondo così diverso dal nostro?

Kinnaur Himalaya” è un progetto più recente, di fatto la ripresa e la conclusione della tesi di laurea succitata, svolta in Himalaya nel 2003. Tra il 2018 e il 2019 ho trascorso altri 4 mesi in Kinnaur, ampliando la ricerca originaria poi raccolta nel libro “Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos” e in un documentario intitolato “Kinnaur Himalaya”, presentato in prima mondiale al Trento Film Festival, poi all’International Festival of Ethnological Film di Belgrado e recentemente premiato con il Prize Mountain Wilderness al 38° Torello Mountain Film Festival, in Catalogna (Spagna).
Per me tornare in Kinnaur è servito a chiudere un ciclo e, se vogliamo, a dare un senso a un lavoro rimasto a lungo il pass per garantirmi la laurea. Insomma, volevo togliere questa ricerca dallo scaffale in cui era arenata con la tesi, per portarla in superficie e divulgarla rendendola accessibile a un pubblico ampio. Del resto, è in Kinnaur dove per me tutto ha avuto inizio.    

Cos’è per te Ca’ Foscari Alumni? Cosa rappresenta per te come iniziativa, cosa vorresti offrisse l’Associazione, a che iniziative e progetti ti piacerebbe partecipare o dare il tuo contributo?

Alumni è senz’altro un’opportunità per noi Cafoscarini, serve a non perdere il legame con l’Università, che resta il luogo in cui ci siamo formati e siamo cresciuti. A prescindere dalle carriere di ciascuno, ritengo sia vitale preservare un legame con il mondo universitario. Dall’Associazione mi aspetto l’organizzazione di iniziative concrete, magari incontri annuali tra laureati degli stessi corsi o degli stessi anni. Oppure maggiore coinvolgimento di certi profili (laureati che hanno avuto carriere di un certo tipo) nella formazione degli studenti odierni, e non solo per eventi celebrativi. Come contributo credo di poter essere utile durante i cosiddetti “open day” per i ragazzi che dalle superiori devono decidere in quale Università iscriversi. Poi ancora, potrei portare la mia testimonianza alle nuove matricole, attività che già mi è capitato di fare, seppur in modo sporadico.

Che messaggio vuoi lasciare agli altri Alumni, in particolare ai neolaureati?

Siate orgogliosi di essere Cafoscarini.